
La legge sull'autonomia differenziata, entrata in vigore il 13 luglio 2024, attua una riforma costituzionale del 2001 per trasferire competenze dallo Stato alle Regioni. Il provvedimento, che suscita un acceso dibattito politico, è ora al centro di una richiesta di referendum abrogativo promosso dalle opposizioni.
Il 13 luglio 2024 è ufficialmente entrata in vigore la l. 86/2024, comunemente conosciuta come legge sull’autonomia differenziata. Si tratta, più precisamente, della norma di applicazione dell’art. 116, co. 3, della Costituzione italiana, introdotto dalla riforma costituzionale del 2001 e che recita:
«Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l), limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, n) e s), possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei princìpi di cui all’articolo 119. La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata».
Per alcuni, si tratta di una riforma epocale che finalmente attuerà la Costituzione e che migliorerà la qualità della vita nel nostro Paese; per altri, al contrario, costituisce una norma al limite dell’anticostituzionalità e che rischia di peggiorare e acuire le differenze già presenti sul territorio italiano. Tanto è vero che tutte le opposizioni presenti in Parlamento, nonché alcune associazioni, sindacati e movimenti della società civile, hanno già raccolto le 500.000 firme necessarie per richiedere un referendum abrogativo (secondo l’art. 75 della Costituzione). Che cos’è quindi, l’autonomia differenziata? E, soprattutto, quali sono i contenuti di questa legge tanto discussa?
La genesi della legge
Subito dopo la riforma del 2001, e nel corso degli anni seguenti, alcune Regioni avevano già provato, senza alcun successo, a richiedere al Governo l’applicazione del nuovo comma 3 dell’art. 116. Tuttavia, questa richiesta di “autonomia differenziata” balzata agli onori della cronaca e all’attenzione dell’opinione pubblica solo dopo il 2017: nell’ottobre di quell’anno, infatti, Lombardia e Veneto organizzano un referendum consultivo sull’argomento e, insieme all’Emilia-Romagna – che non aveva organizzato alcuna consultazione elettorale – ottengono di siglare tre differenti pre-intese con il Governo in carica. Quel processo, però, si interrompe, principalmente a causa del cambio di Governo in carica: gli accordi vengono infatti siglati il 28 febbraio 2018, pochi giorni prima delle elezioni politiche che danno vita alla XVIII legislatura. I Governi successivi si occupano solo formalmente di dare seguito alle tre pre-intese: sono nominate commissioni di esperti e organizzati diversi convegni, ma dal punto di vista sostanziale nulla viene deciso. Nel corso dell’attuale legislatura, invece, il processo di approvazione della legge riprende e procede in maniera piuttosto rapida. Il 17 novembre 2022, infatti, Roberto Calderoli, ministro per gli Affari regionali e le autonomie, presenta alle Regioni la bozza di disegno di legge “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata di cui all’articolo 116, terzo comma, della Costituzione” che, con alcune modifiche, è licenziato dal Governo il 2 febbraio 2023 e quindi trasmesso al Parlamento. Il decreto è approvato prima dal Senato della Repubblica, con 110 voti favorevoli, il 23 gennaio 2024 e infine presso la Camera dei deputati, con 172 voti favorevoli, il 19 giugno 2024. A questo punto, la palla ripassa nelle mani del Governo, che ha due anni di tempo a disposizione per definire i cosiddetti “livelli essenziali delle prestazioni”, ossia di criteri che determinano il livello di servizio minimo che deve essere garantito uniformemente su tutto il territorio nazionale per le materie o ambiti di materia oggetto di devoluzione. Questo è probabilmente l’aspetto più cruciale del processo di trasferimento di competenze tra Governo e Regioni, insieme, naturalmente, a quello del loro finanziamento.
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Gli undici articoli della l. 86/2024 definiscono l’iter legislativo previsto per il trasferimento di materie di competenza concorrente (tutte, cioè venti) o, addirittura, statale (solo tre) alle Regioni a statuto ordinario che ne fanno richiesta. Queste materie sono elencate, rispettivamente, ai commi 2 e 1 dell’art. 117 della Costituzione.
Le materie di competenza concorrente sono le seguenti.
- Rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni.
- Commercio con l’estero.
- Tutela e sicurezza del lavoro.
- Istruzione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione professionale.
- Professioni. • Ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi.
- Tutela della salute.
- Alimentazione.
- Ordinamento sportivo.
- Protezione civile.
- Governo del territorio.
- Porti e aeroporti civili.
- Grandi reti di trasporto e di navigazione.
- Ordinamento della comunicazione.
- Produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia.
- Previdenza complementare e integrativa.
- Coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario.
- Valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali.
- Casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale.
- Enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale.
Le materie di competenza esclusiva statale, ma che sono trasferibili alle Regioni ai sensi dell’art. 116, co. 3, sono invece le seguenti.
- Giurisdizione e norme processuali, limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace.
- Norme generali sull’istruzione.
- Tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali.
Come anticipato, dalla data di entrata in vigore della legge, il governo ha due anni di tempo per approvare i livelli essenziali delle prestazioni (Lep) relativi a «materie o ambiti di materie riferibili ai diritti civili e sociali che devono essere garantiti equamente su tutto il territorio nazionale» (art. 1, co. 2). Tra le ventitré materie trasferibili, ben quattordici richiedono la definizione dei Lep: tra queste, le più rilevanti sono sicuramente istruzione, mobilità, trasporti, assistenza sociale e ambiente. Per la sanità, sono già stati definiti da tempo i cosiddetti livelli essenziali di assistenza (Lea), che di fatto sostituiscono i livelli essenziali delle prestazioni per questa materia. Inoltre, sempre il Governo dovrà poi valutare le risorse finanziarie necessarie a garantirne l’applicazione nei vari territori regionali e comunali.
Più spedito, invece, appare il percorso per le materie che non richiedono i Lep: nei nove rimanenti casi, le Regioni interessate possono chiedere già oggi l’attivazione del processo di devoluzione delle materie o ambiti di materia. Nel testo della legge (art. 2, co. 1), è poi specificato come l’atto di iniziativa spetti alla Regione interessata, una volta «sentiti gli enti locali secondo le modalità e le forme stabilite nell’ambito della propria autonomia statutaria». Significa che sarà lo Statuto della Regione stessa a stabilire se basterà un procedimento elettorale – per esempio, un referendum – oppure una semplice iniziativa delle istituzioni regionali. Gran parte dell’iter sarà nelle mani del Governo, mentre il Parlamento si limiterà a esprimersi prima con “atti di indirizzo” (art. 2, co. 4) non vincolanti sui singoli “schemi di intesa preliminare” e poi ad approvare o meno il disegno di legge contenente l’intesa definitiva per ogni Regione (art. 2, co. 8). Ciò significa che le Camere potranno eventualmente respingere in toto le intese, ma non potranno modificarne punti specifici.
Lep o non Lep?
Come anticipato, le materie su cui può essere richiesta maggiore autonomia sono ventitré, ma solo quattordici di queste richiedono la definizione dei Lep. La concessione di maggiore autonomia su tali materie è quindi subordinata alla determinazione dei Lep, per cui il Governo avrà a disposizione ventiquattro mesi dall’entrata in vigore della legge (art. 3, co. 1). I Lep dovranno essere monitorati e poi eventualmente aggiornati (art. 3, co. 4 e 7). Contestualmente, dovranno essere stabilite anche le risorse necessarie al loro finanziamento, sulla base dei costi e dei fabbisogni standard, determinati e aggiornati con cadenza triennale (art. 3, co. 8). Il trasferimento delle funzioni che richiedono Lep avverrà solo dopo la loro determinazione e nei limiti delle risorse previste dalla legge di bilancio (art. 4, co. 1). In mancanza di tali condizioni, non vi sarà alcun trasferimento. Per le altre materie, invece, il trasferimento potrà essere più immediato (art. 4, co. 2). Le funzioni trasferite saranno finanziate «attraverso compartecipazioni al gettito di uno o più tributi erariali maturato nel territorio regionale» (art. 5, co. 2), sul modello delle Regioni a statuto speciale. Le aliquote di queste compartecipazioni potranno essere aggiornate in caso di «scostamento dovuto alla variazione dei fabbisogni ovvero all’andamento del gettito dei medesimi tributi» (art. 8, co. 2).
La durata delle intese
Le intese potranno durare fino a dieci anni e poi essere rinnovate per uno stesso ammontare di tempo (art. 7, co. 1) oppure potranno cessare, con un preavviso di almeno dodici mesi (art. 7, co. 2). Viene comunque garantita la possibilità che lo Stato, «qualora ricorrano motivate ragioni a tutela della coesione e della solidarietà sociale, conseguenti alla mancata osservanza, direttamente imputabile alla Regione […] dell’obbligo di garantire i Lep», di disporre la «cessazione integrale o parziale dell’intesa» con una legge approvata a maggioranza assoluta delle Camere (art. 7, co. 1).
Le risorse
L’art. 9 contiene principi per garantire gli equilibri di bilancio e si occupa anche delle risorse a disposizione delle Regioni che non abbiano fatto richiesta di autonomia differenziata. Per queste ultime, viene garantita l’invarianza finanziaria, cioè che dall’autonomia differenziata non deriveranno nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica. Inoltre, si stabilisce che le intese non possano «pregiudicare l’entità e la proporzionalità delle risorse da destinare a ciascuna delle altre Regioni, anche in relazione a eventuali maggiori risorse destinate all’attuazione dei Lep». È inoltre «comunque garantita la perequazione per i territori con minore capacità fiscale per abitante». L’art. 10 prevede misure perequative e di promozione dello sviluppo economico, della coesione e della solidarietà sociale. È infine prevista un’ulteriore clausola di salvaguardia che permette al Governo di sostituirsi agli organi regionali in caso di inadempienza o situazioni che minacciano la sicurezza pubblica o l’unità giuridica ed economica (art. 11, co. 3). Curiosamente, la legge viene estesa anche alle Regioni a statuto speciale e alle Province autonome (art. 11, co. 2).
È una legge che spacca il Paese?
Politicamente, il giudizio sulla legge in questione è soggetto ad abbondante propaganda, a partire dalla principale critica mossa dall’opposizione, che definisce la manovra come una “spaccatura definitiva” per il Paese. Questa critica non riflette la realtà del provvedimento dal punto di vista economico. Difatti, come già precisato, l’art. 9 garantisce l’invarianza finanziaria per le Regioni che non richiedono l’autonomia differenziata e assicura, inoltre, che le intese non pregiudichino le risorse destinate alle altre Regioni, anche con riferimento alle risorse aggiuntive per l’attuazione dei Lep. Inoltre, a livello tecnico, non si tratta certo di una rivoluzione né, al contrario, di una misura eversiva. Da un lato, infatti, non c’è alcun obbligo automatico di dare seguito a tutte le richieste ricevute da parte delle Regioni: di qui a cinquant’anni, per esempio, potrebbe non essere cambiato ancora nulla. Dall’altro lato, si tratta semplicemente di applicare un comma della Costituzione vigente. Del resto, è anche vero che le potenzialità del provvedimento sono sì note, ma ancora molto teoriche. L’autonomia “dovrebbe” migliorare la responsabilità dei politici locali e portare a servizi migliori. Tuttavia, oltre settant’anni di Regioni a statuto speciale hanno mostrato che maggiori poteri possono portare a risultati molto diversi: ottimi in alcuni casi e scadenti in altri. Più interessante è analizzare gli elementi critici, non perché siano per forza prevalenti, ma perché sono quelli che rischierebbero di compromettere il buon funzionamento dell’autonomia differenziata.
Le criticità
Possiamo evidenziare tre specifiche criticità:
- innanzitutto, mancano un test o un criterio tecnico per verificare che una Regione sia effettivamente pronta ad avere maggiore autonomia. Il comma 1 dell’art. 2 prevede che si tenga conto del quadro finanziario della Regione, ma questa formula è eccessivamente vaga e per nulla vincolante. Il test servirebbe soprattutto a evitare inutili iniziative destinate a fallire prima ancora di cominciare.
- In secondo luogo, il ruolo del Parlamento appare troppo marginale ed è perlomeno curioso, visto che si tratta di stabilire quali delle sue specifiche competenze possano essere cedute ad altri.
- Infine, ancora non si capisce se il complesso delle risorse necessario a far funzionare l’autonomia differenziata sarà sufficiente oppure no.
Sarà importante, nel prossimo futuro, vigilare sulla stima dei trasferimenti di risorse conseguenti alla determinazione dei Lep e sulla devoluzione delle funzioni non Lep, da cui potrebbero derivare differenziazioni regolamentatorie poco proficue, sia per le Regioni sia per il Paese. Per quanto riguarda invece il pericolo di creare un “Paese arlecchino”, vale la pena di notare che la legge fa riferimento continuo a materie o ambiti di materia. Chiunque abbia letto le intese preliminari del 2018 sa benissimo che la tendenza del Governo, anche per resistenza degli stessi Ministeri e della burocrazia centrale, è quella di cedere competenze (legislative o anche solo amministrative) su aspetti specifici e molto limitati. È questo probabilmente lo spirito corretto del provvedimento, che dovrebbe mirare a valorizzare le potenzialità locali e non, invece, a determinare venti sistemi sanitari o scolastici differenti, il che, ovviamente, sarebbe una sciocchezza. Va da sé che il pericolo di uno “Stato arlecchino”, per quanto l’espressione appaia decisamente molto colorita, sia più probabile di quello di una “secessione dei ricchi”, come il procedimento di autonomia differenziata è stato descritto da altri critici.
Quale sarà il destino dell'autonomia differenziata?
Che cosa succederà ora? Il destino dell’autonomia differenziata nel nostro Paese, ancora una volta, è legato all’esito di un referendum. Si tratta del terzo, forse un piccolo record per una legge che, di fatto, al momento non ha ancora prodotto alcun risultato. Il primo referendum è stato quello del 2001, un referendum confermativo con cui l’elettorato italiano decise di recepire la riforma costituzionale del Titolo V della seconda parte della Costituzione, elaborato dall’allora maggioranza di centrosinistra. Per quanto il voto referendario fosse sul complesso della riforma e non sui singoli articoli, gli elettori decisero che, evidentemente, gli aspetti positivi delle novità introdotte superassero gli aspetti negativi. Il secondo referendum è stato quello consultivo organizzato - va detto, senza alcuna necessità istituzionale - dalle regioni Lombardia e Veneto nel 2017. Nonostante in quel caso la finalità dell’operazione fosse più squisitamente di propaganda politica, i risultati in termini di partecipazione furono piuttosto confortanti per gli organizzatori.
Il terzo referendum, invece, potrebbe tenersi nel corso della primavera del 2025. Se la richiesta verrà accolta dalla Corte costituzionale, sarà un referendum abrogativo. Per questo motivo, gli organizzatori, la cui finalità è quella di eliminare in tutto o in parte la legge sull’autonomia, dovranno preoccuparsi sia di ottenere un numero di consensi sufficiente sia di portare a votare un numero adeguato di elettori. Il referendum, infatti, non sarà valido se non verrà raggiunto il quorum del 50% degli aventi diritto. Saranno quindi i prossimi mesi a stabilire se il processo di autonomia differenziata in Italia potrà finalmente iniziare, se dovrà ricominciare da capo o se, addirittura, dovrà fermarsi per sempre.
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